Mi sono chiesto se realmente a farne le spese nelle forme di protezione giuridica siano le persone che vengono raggiunte da un provvedimento che costringe il soggetto a stare dentro delle decisioni, che non fanno parte della sua storia, e che spesso non condivide.
Sembra quasi che la ineducazione e l’avversione verso la fragilità, vissuta come sinonimo esistenziale di sofferenza, determini comportamenti che non tengono conto della fragilità medesima.
Fin da piccoli veniamo educati a concorrere, a primeggiare, a dare un’idea di noi che non corrisponde alla nostra natura profonda.
Quindi, per rientrare in rigidi parametri sociali ed educativi fondati sull’apparente efficienza, spesso nevrotica, ci allontaniamo dal senso e dalla percezione di tutti quegli elementi costitutivi dell’essere umano, anche la fragilità, la sofferenza, la distanza relazionale con noi stessi, gli altri e la natura.
Veniamo, dal nostro sistema educativo, anestetizzati, privati della naturale capacità di entrare nel sentire, favorendo forme di attaccamento ad un pensiero, ad un sistema, ad una religione, a valori fittizi dove la lontananza apercettiva si struttura in personalità. Così un individuo passa la vita nella convinzione di essere quella struttura, che sebbene illusoria ci costringe in “Vite gabbia”.
Inevitabilmente poi entriamo in contatto con la difficoltà, con la sofferenza, nelle sue varie espressioni e lì il sistema viene messo a dura prova. Di fronte alla sofferenza, inermi, cerchiamo di dare risposte, spesso legate a procedure, protocolli, di nuovo a strutture rigide che non tengono conto dell’essere umano nella sua complessità e dei suoi bisogni diversi e plurimi e che la vita porta con sé.
Allora provvedimenti standard, forme di giustizia sommaria e non prossima all’umanità, gestioni conseguenti a questa modalità, generano inevitabilmente ulteriore sofferenza sul soggetto fragile. Quindi, quel provvedimento che dovrebbe essere fondato sulla cura nel rispetto dei bisogni e delle aspirazioni parte già viziato in partenza, anche che per coloro che tentano di rifarsi ai valori ed alle prescrizioni codicistiche e normative che così si esprimono.
Cosa proporre, dunque, per chi intende occuparsi di fragilità, di ridotte autonomie, di perdita dello stato ordinario della coscienza che permette ad ogni essere di vivere negli spazi di normalità, così definiti dalla collettività e dal momento storico e culturale in cui viviamo?
In via preliminare sarebbe necessario considerare che la normalità definita in un determinato periodo storico non è un concetto assoluto ed immutabile.
Questo dovrebbe già permetterci di prendere le distanze da schemi e convinzioni, sviluppando maggiore equanimità ed accoglienza verso ciò che non ci è immediatamente comprensibile e chiaro, ed entrando in una modalità esplorativa gentile di ciò che si presenta come diverso per noi, di ciò che genera avversione e rifiuto, per meglio conoscerlo e per meglio conoscerci.
Aggiungerei che ogni forma di avversione dovrebbe suscitare la nostra curiosità esplorativa, incamminandoci così in una attenta autoanalisi: l’avversione è con molta probabilità sintomo di quanto ci abita, in forma rinnegata o latente, di quanto si muove in noi nel silenzio dell’inconsapevolezza, dell’inconscio. Stessa considerazione potremmo formularla per ciò che ci attrae.
Dovremmo allora avvicinarci con estrema cautela all’Altro, nel rispetto di ciò che porta nella Sua vita e storia, osservando ciò che suscita in noi. Questo tipo di osservazione potrebbe permetterci di attuare un corretto processo dell’ascolto, non inquinato da schemi, pregiudizi ed abitudini che alterano l’accesso al mondo dell’altro.
In altri termini, non è assolutamente sufficiente ancorarsi ad un dettato normativo, senza un substrato più profondo legato a nuove ed adeguate competenze relazionali non derivanti solo dallo studio, ma da un percorso di autoesplorazione a cui si accede mediante i processi di consapevolezza, a volte anche supportati da una adeguata psicoterapia o analisi.
Inoltre, l’accesso a spazi di empatia matura diviene indispensabile, lavorando sullo sviluppo di una autoregolazione emotiva, essendo questo uno degli effetti tipici della meditazione di consapevolezza.
Il secondo aspetto di tutto rilievo è conoscere il diritto, il lettore si chiederà come è possibile questo rilievo.
Intendo la conoscenza non asettica delle norme, ma una conoscenza articolata dove unire competenze in merito al diritto sovranazionale e convenzionale, costituzionale ed interno, apprendendo adeguatamente l’operatività dei procedimenti di volontaria giurisdizione, assumendo come valore fondamentale la Persona, la sua libertà e diritto di essere ciò che la sua vita esprime, in una logica non solo patrimonialistica e di mera conservazione e di relegazione sociale e relazionale.
Ognuno ha poi un proprio percorso esistenziale, migliorabile, ma di cui si deve tener conto senza per questo forzare, limitare e costringere in un senso del giusto spesso parziale ed afinalistico.
Il non tener presente questi aspetti, in un insieme composito, dinamico rispettoso della complessità del fenomeno umano porta inevitabilmente ad infliggere altre sofferenze ed a farne le spese sono i più fragili.
Ma siccome nella fragilità ci siamo immersi tutti, trascurare la fragilità altrui, inevitabilmente favorisce il dilagare di stati di sofferenza per l’intera collettività.
Quanto brevemente osservato dovrebbe permetterci una comprensione di ciò che è la Compassione ed i suoi effetti nella collettività ed in noi.
La Compassione è dunque spazio di promozione della salute di ogni essere umano.
Questo articolo fa parte di un ciclo più ampio, che si occupa di indagare le forme di protezione giuridica di persone con ridotte autonomie.
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