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In questi ultimi anni della mia esistenza, ho avuto modo di toccare con mano il senso della follia, dell’assurdità, dell’incompiutezza, dell’ignoranza che abita i sistemi che si ergono ad attori della protezione delle persone con ridotte autonomie o che intervengono in spazi in cui la fragilità umana si fa espressione “forte” dell’esistere.

Ho visto la fragilità negli occhi, ho cercato di rapportarmi a Lei, fino allo smarrimento ed alla paura di non farvi più ritorno.

Questo sembrerebbe un linguaggio ed un esprimersi contraddittorio “Fragilità –Espressione forte dell’esistere”, ma in realtà risponde ad una logica diversa da quella ordinaria. Ogni essere umano nel suo percorso, dalla nascita sino al tempo della sua morte, incontra la fragilità e con essa la sofferenza. Nella nostra cultura ed educazione il rapporto con la sofferenza non si rinvengono modalità  di intervento formativo idoneo a permettere di entrare in relazione con la sofferenza e la sua matrice. Temiamo la sofferenza, il dolore genera avversione e nessuno ci educa a scoprirne la natura e le sue radici. L’incapacità di leggere e vivere il dolore senza interferenze mentali condizionate, non solo genera sofferenza in noi, ma ci impedisce di entrare realmente in relazione con l’altro.

Spesso la sofferenza deriva dall’ignorare chi siamo, qual è la nostra natura essenziale, la nostra storia intrauterina e dei  primi anni della nostra esperienza umana, dei nostri schemi condizionanti, dell’assenza di ogni confidenza con la nostra dimensione inconscia.

Siamo vissuti da questo mondo che sostanzialmente ignoriamo e che reclama la sua emersione, guidandoci nei campi della sofferenza dove ci troviamo impreparati e smarriti, incapaci di una esplorazione saggia ed intenzionale.

Pervasi da una sostanziale insoddisfazione verso l’esistere, anche nelle professioni di aiuto, ci avviciniamo ai sofferenti, nel corpo e nella mente, spesso però nella ignoranza di ciò che ci riguarda come esseri umani non esenti dalla sofferenza e da una comprensione della stessa.

Qui il tratto della follia e dell’assurdità: immersi nell’ignoranza fondamentale verso di noi diveniamo arbitri della vita altrui, decidiamo e coadiuviamo decisioni spesso senza conoscere, nulla o poco delle esistenze verso cui ci indirizziamo, ma soprattutto senza aver esplorato la fragilità ed il senso della fragilità umana.

Il prof. Eugenio Borgna con puntualità osserva: “Qual è il senso di un discorso sulla fragilità?”

Quello di riflettere sugli aspetti luminosi ed oscuri di una condizione  umana che ha molti volti e, in particolare, il volto della malattia fisica e psichica, della condizione adolescenziale con le sue vertiginose ascese nei cieli stellati della gioia e della speranza, e con le sue discese negli abissi dell’insicurezza e della disperazione, ma anche il volto della condizione anziana, lacerata dalla solitudine e dalla noncuranza, dello straniamento e dell’angoscia della morte. La fragilità negli slogan mondani dominanti è l’immagine della debolezza inutile e antiquata, immatura e malata, inconsistente e destituita di senso; e invece nella fragilità si nascondono i valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita e che consentono di immedesimarci con più facilità e con più passione negli stati d’animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi.”

Trattare la fragilità, senza nutrire e crescere nella compassione, nella sollecitudine empatica, come definita da Matthieu Richard, sviluppando forme di empatia matura è la chiara rappresentazione di quanta poca conoscenza abita il mondo delle relazioni e professioni d’aiuto.

Quanto poco ascolto nelle relazioni, tutti presi dalle proprie convinzioni aprioristiche, ricoverati nell’angusta stanza delle proprie “Verità”.

Silenzio, ascolto, parole, questi gli spazi in cui si alterano le comprensioni dell’altro nei contesti relazionali, perché il silenzio e l’ascolto di sé non sono una pratica costante, pur essendo il presupposto per un ascolto attivo nel contesto relazionale.

Prosegue il prof. Borgna:

“ciascuno di noi, in vita, ha a che fare con le parole: con parole fredde ed opache, crudeli e pietrificate, negate alla trascendenza ed immerse nell’immanenza, o con parole leggere e profonde, fulvide  e discrete, delicate ed aperte alla speranza, fragili e friabili, permeabili all’incontro ed al dialogo, al cambiamento degli stati d’animo e delle situazioni”.

Cosa contrassegna le parole fragili e delicate, le parole che sono arcobaleno di speranza e cosa le distingue da quelle che non lo sono?

Solo l’intuizione e la sensibilità ci consentono di conoscerle, e di coglierle nei loro orizzonti di senso. Le parole fragili sono parole portatrici di significati inattesi e trascendenti, luminosi ed oscuri, umbratili e crepuscolari…..Le parole sono intrecciate al silenzio, e la loro fragilità rimanda alla fragilità del silenzio che ha mille modi di esprimersi, e che si rompe facilmente…”

Il prof. Borgna cita e richiama Giovanni Pozzi e sottolinea come per ascoltare è necessario tacere, silenzio esteriore, ma anche interiore. Richiama la straordinaria espressione di Etty Hillesum: “In me c’è un silenzio sempre più profondo, lo lambiscono tante parole che stancano perché non riescono ad esprimere nulla……bisogna  sempre più risparmiare le parole inutili per poter trovare quelle poche parole che ci sono necessarie, per riconoscerci e per riconoscere cosa c’è nell’altro. Questa nuova forma di espressione deve maturare nel silenzio.”

La parola in sé non è fragile, lo è il silenzio, quel silenzio che fatichiamo a raggiungere già nella solitudine, ma ancor più nella relazione dove l’ascolto diviene campo dell’incontro reale ed accogliente.

Non sappiamo accogliere  il silenzio della solitudine, perché le nostre solitudini sono abitate dagli spettri di una mente che continua a discorrere follemente su tutto  e su tutti, abitata dal giudizio e dalla incapacità di entrare nell’esperienza della propria umanità ed ancor più difficile abitare il silenzio nel rapporto con l’altro perché ingabbiati in una mente che anticipa e valuta non appena viene toccata dalla presenza dell’altro, da uno sguardo, dalle sembianze, dall’odore dell’altro. Troppo imprigionati nel proprio Sé, non riusciamo mai ad incontrare l’altro se non in funzione di ciò che ci abita, nei fondali non scrutati del nostro inconscio.

Apprendere ad abitare il silenzio con fiducia e con pazienza richiede uno sforzo intenzionale, una determinazione che deve accompagnare ogni nostra giornata, in una  solitudine dove permettersi di esplorare in una attenta osservazione come funzioniamo, come in noi corpo-mente agiscono e si manifestano, questo per iniziare ad entrare in relazioni significative con gli altri dove l’incontro diviene generativo e costruttivo anche difronte alla sofferenza.

Il silenzio è un essere vivente, che spaventa le nostre piccole menti, ma solo in lui si possono ascoltare le voci che arrivano dalle profondità inesplorate e che ci avvicinano al dolore, all’angoscia, alla malattia, a quei tratti oscuri dove temiamo di perderci in una follia che va varcata per essere compresa e sanata.

Ora il significato del titolo di questo primo articolo può apparire più comprensibile e forse meno irritante. Sottolineo come occuparsi della fragilità di altri esseri sia in realtà uno degli impegni più complessi, perché presuppone il viaggio nella propria fragilità, nelle proprie paure fondamentali.

Il diritto ad un progetto di vita, diritto tanto desiderato quanto tradito, presuppone la capacità di abitare il silenzio, perché l’incontro apra a quei mondi inesplorati che richiedono sensibilità, dedizione giornaliera, fino a divenire quella presenza che abita ogni attimo, ogni sguardo, ogni parola, ogni respiro e dove la percezione dell’impermanenza e dell’interessere divengono luoghi dove abitare le relazioni.

La consapevolezza come punto di partenza

Nel mio viaggio fino ad oggi, nasce la comprensione che  il diritto può incontrare la fragilità e proteggerla nel suo esprimersi per donare il sollievo della Libertà, odorandone la presenza, perché il cammino verso di lei è il vero dono di questo esistere, è il vero dono di ogni incontro, ma perché ciò avvenga il cammino formativo richiederebbe uno studio serio e costante del diritto nell’ambito della protezione giuridica affiancato dall’apprendere competenze relazionali accedendo altresì allo sviluppo di stati di consapevolezza, come quelli che incontro nella mindfulness, per la chiarezza che concedono nell’entrare in contatto con ciò che siamo, guardando alla nostra umanità in tutti i suoi aspetti, in una prospettiva olistica che include l’analisi.

Questo, in termini più legati al diritto, consentirebbe di uscire da una visione esclusivamente patrimonialistica nella strutturazione dei “progetti di vita”, purtroppo dai più neanche concepiti,  entrando in una dimensione più umanistica, più vicina ai bisogni e alle aspirazioni, della persona che vede ridotte le proprie autonomie per fatti ed accadimenti anche accidentali nella propria vita, ma non solo.

Nei prossimi articoli esplorerò una serie di proposte, che concretamente attuai, in alcuni casi complessi che mi vennero affidati, mediante il contestuale utilizzo di diversi istituti e strumenti: il contratto atipico del mandato per la propria futura incapacità, il trust, la donazione modale, il testamento con disposizoni a favore di terzi mediante onere testamentario (legato a favore di terzo) l’atto di designazione dell’amministratore di sostegno integrato, la procura sanitaria e le direttive anticipate o testamento biologico. Con l’intendimento di manifestare a tutti  strade e possibilità per evitare che altri possano decidere su stili e progetti di vita, senza tenere in considerazioni le reali aspirazioni ed i reali bisogni della persona e della famiglia che ha organizzato e curato un piano di intervento attento alla persona, disponendo in modo funzionale e strumentale del patrimonio presente e realizzabile, superando criteri ottocenteschi vessatori fondati su di un principio di mera conservazione patrimoniale afinalistica, modalità questa che ha generato mostri, facendo morire persone in uno stato di disperazione e di impossibilità a vivere le proprie scelte di una intera vita.

Concludo questo mio breve primo articolo, dei prossimi 21 di cui ho già formulato i titoli,  che quindi entrerà a far parte di un articolato percorso in tema di tutela della fragilità e delle persone con ridotte autonomie e che aprirà nuovi orizzonti per ricercatori, magistrati, avvocati, medici, psichiatri, psicologi, assistenti sociali, educatori, infermieri, insegnanti, familiari e loro associazioni, tutori, curatori ed amministratori di sostegno, ma anche alle persone con ridotte autonomie tali da non compromettere tutte le funzioni , con un pensiero tratto da  J Krishnamurti:

“…la mente disponendo di un ordine che non appartiene al pensiero, diventa profondamente calma e silenziosa, in modo naturale, senza sforzo, senza nessuna disciplina. Nella luce di questo silenzio, può prodursi qualunque azione, vivendo giorno per giorno in questo silenzio. Se siete stati così fortunati da arrivare a questo punto, vedrete che in questo silenzio c’è un movimento molto diverso che non appartiene al tempo, non appartiene alle parole e non è misurabile dal pensiero, perché è sempre nuovo. E’ quel qualcosa di incommensurabile che l’umanità cerca da sempre. Ma dovete trovarlo voi, non vi viene dato. Non è la parola, non è un simbolo. Queste sono cose distruttive, ma perché  possa esservi, devono esserci totale ordine, bellezza ed amore. Per questo dovete morire psicologicamente a tutto ciò che conoscete, affinché la vostra mente sia chiara e non distorta e possa vedere le cose così come sono, sia all’interno, sia all’esterno.”

Questo articolo fa parte di un ciclo più ampio, che si occupa di indagare le forme di protezione giuridica di persone con ridotte autonomie.
Qui trovi il secondo articolo.

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